Capitolo 1
Maledetti Kulaki

1.1 – una missione poco chiara

Una mattina del tardo marzo 1934 un giovane ufficiale superiore salì con calma le scalinate della sede moscovita dell’OGPU, la famigerata polizia sovietica di sicurezza interna, al numero 2 della centralissima Bol’saja Lubjanka.

Il giovane, nominato maggiore da nemmeno un anno, si chiamava Michail Ivanovic Salomov. Proveniva da uno sperduto villaggio distante una decina di chilometri a nord-ovest di Leningrado.

Poiché era nato nel 1900 si poteva dire che stesse percorrendo una veloce carriera. Un cammino professionale che lo avrebbe potuto portare entro i 50 anni al grado di generale di brigata. Il condizionale era necessario considerando la discreta quantità di ostacoli, imprevisti, tranelli legati ora ai superiori, al vento politico e agli umori dei potenti che si aggiravano nei corridoi del Cremlino. Primo su tutti Iosif Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin, “l’uomo d’acciaio”, e padrone di tutte le Russie.

Il maggiore Salomov non aveva nulla a che spartire con la razza degli uomini d’acciaio, ferro e leghe affini. D’altronde, il paragone era impossibile. Da un lato c’era un uomo di 53 anni, per quei tempi fra mezza età e prima vecchiaia, di altezza oscillante fra il metro e sessantacinque e il metro e cinquantotto a seconda delle testimonianze, viso butterato dal vaiolo, sguardo bovino, modi che alternavano falsa bonarietà e reazioni spietate; e dall’altra un atletico trentatreenne, alto un metro e ottantacinque, occhi azzurri, capelli neri, tratti eleganti, modi discreti. E una certa aria di distacco, a volte di strafottenza che spesso colpiva ragazze e donne.

In quegli anni durissimi, soprattutto per chi occupava posizioni di rilievo nel PCUS, Armata Rossa, OGPU, diplomazia, uffici economici e statistici si rendevano indispensabili tre abilità: scegliere lo schieramento giusto; restarvi fedele in modo cieco, ostinato, ottuso; non emergere, mantenendo un profilo modesto, indistinguibile dalla massa obbediente ai capi bestiame.

Se il legame fra queste tre risorse si dimostrava solido, il soggetto sarebbe comunque riuscito a “cadere in piedi” anche nel caso avesse scelto la frazione sbagliata o l’appoggio di un dirigente in declino, proseguendo senza eccessivi scossoni una carriera tranquilla, seppur non clamorosa.

Coloro che circondavano Stalin curavano sopra ogni cosa di prendere posizione esclusivamente nel caso in cui il “Piccolo Padre” avesse già espresso la propria posizione: l’unica che contava per le decine di milioni di sovietici. Per sua fortuna, appartenendo al primo gradino degli ufficiali superiori, a Salomov non era ancora richiesto di esprimersi, quanto di ubbidire con la massima efficienza. In realtà, trattandosi del più potente organo del regime staliniano – dal 1933 paragonato opportunamente alla tedesca Gestapo – l’OGPU richiedeva cautela, discrezione e identificazione assolute. Dal soldato semplice al sottocapo, era semplicemente questione di vita o di morte.

Salomov aveva in mano una convocazione scritta risalente ad appena due giorni prima. Doveva presentarsi alle nove precise nell’ufficio del colonnello responsabile della sezione Affari Interni 1/A. Distingueva solo il nome, Adam, mentre il patronimico era illeggibile. Il cognome pareva Zukov o Dzjukov. Si era premurato di arrivare con un quarto d’ora d’anticipo: la prima mossa per non farsi guardar male da un superiore mai visto prima. Si annunciò a un’arcigna segretaria sulla cinquantina e in sovrappeso. Quindi, si lasciò cadere su una scomodissima sedia rosicchiata dai decenni. Era l’unico ad attendere seduto mentre intorno schizzavano decine di soldati, graduati, ufficiali inferiori. Tutti al di sotto del grado di capitano. Maggiori e colonnelli, soprattutto i generali, si godevano le poltrone; un po’ antiche forse, ma così imbottite che veniva voglia di farci un lungo sonno. Attività che a Salomov mancava ormai da mesi. Girava di provincia in provincia con una serie d’incarichi del tutto diversi: chiudere una distilleria clandestina di vodka o rincorrere una banda di disertori che rubava cavalli e bestiame nelle campagne, stanare un gruppo di oppositori politici, fino a occuparsi della censura su giornali di provincia.

Il giovane maggiore era bravo; lo dimostravano i regali e i permessi premio ricevuti; soprattutto la promozione a capitano a 27 anni e a maggiore a 34. Ma ormai la stanchezza fisica e mentale si stavano facendo strada con prepotenza, simili alle trivelle usate per scavare le gallerie ferroviarie.

Sperava che questa volta lo avrebbero finalmente destinato a incarichi più sedentari e interessanti. I cinque anni trascorsi, gli apparivano come un’unica sequela di facce, stazioni di polizia, direzioni di distretto, interrogatori notturni, aule di tribunali. Per non parlare dell’ammasso di date, carte, soprannomi, reati, testimoni, scorte ai treni verso la Siberia.

Dopo un’attesa di oltre mezz’ora e tre sigarette fumate con automatismo da tabagista di lungo corso apparve un ometto sulla cinquantina. Si presentò come colonnello Adam Dzjukov e, da quel giorno, suo unico e diretto superiore. Lo condusse in un enorme ufficio in fondo al quale campeggiavano i ritratti di Lenin e di Stalin. Sul lato destro, rispetto alla grande scrivania di legno massiccio, marrone scuro, spiccava il volto patriottico del segretario del partito di Leningrado, Sergej Kirov, da tempo stella in veloce ascesa e gran protetto del capo supremo.

Salomov pensò che l’ometto, in quel momento impegnato ad accendersi un grosso sigaro, doveva essere piuttosto astuto. 

«Allora, compagno…».

Attese di trovare conferma al cognome esatto consultando un mucchio di carte che troneggiava al centro della scrivania.

«…Compagno Salomov. Dunque, maggiore dal 1932, nemmeno dodici mesi fa. E a soli 34 anni, bravo».

Lo fissò con uno sguardo vitreo, poi gli fece finalmente cenno di accomodarsi di fronte a lui. La poltrona era di fattura europea, degna di brillare in una sede dei Lloyd’s di Londra. 

Salomov ci sprofondò con colpevole senso di comodità. Da ormai quindici anni la rivoluzione aveva rivoltato la vecchia Santa Madre Russia come un guanto; negli ultimi tempi si era attenuata la distanza, perfino l’odio per i simboli dell’agio alto borghese, ma senza sconfinare in quelli aristocratici, identificati con lo czarismo. Sembrava esserci una vaga comprensione per le tendenze capitaliste accompagnata da perenne intolleranza per il passato rappresentato dalla dinastia dei Romanov.

Circa l’uso delle borghesissime poltrone, l’importante era che fosse limitato a dirigenti meritevoli di tali piccoli lussi, guadagnati in campagne di guerra civile, iniziative economiche, lotte a spie straniere.

Il nemico supremo rispondeva al nome di Lev Davidovic’ Bronstein, detto Trotzkij. A lungo braccio destro di Lenin, era stato ridimensionato nel ruolo, poi esiliato in Crimea, nella cittadina di Alma Ata. Ma si sapeva che ai piani alti del Cremlino si attendeva a breve la sua eliminazione fisica.

La buona cultura di Salomov, lo portava a comparare l’ascesa e discesa di Bronstein con ciò che Hegel definiva «dure repliche della storia».

«Cosa sa dell’Ucraina, compagno Salomov?» gli chiese Dzjukov a bruciapelo dopo un lungo silenzio.

«Intende dal profilo geografico, culturale, o…».

«Qui» disse puntando il dito sulla scrivania con voce metallica, «non abbiamo tempo da perdere. Voglio sapere se sa qualcosa su quanto sta accadendo laggiù».

«Se si riferisce alla campagna contro i kulaki, ne so quanto ne scrivono le varie «Pravda» o «Izvestija», compagno colonnello».

«Bene. Ma lei che idea se ne è fatta?».

Salomov accavallò le gambe riflettendo rapidamente su come rispondere senza esporsi e al contempo non sembrare reticente.

«Lo ha deciso il compagno segretario generale. Mi basta».

«Uhm… risposta sensata» commentò Dzjukov.

Il maggiore, dopo aver chiesto permesso con un cenno degli occhi, si accese una sigaretta.

Il colonnello si accomodò meglio nella sua poltrona.

«Mi avevano riferito che lei è freddo, perspicace, razionale. È d’accordo con questo ritratto?».

«Che dicano pure. Io vado per la mia strada».

Il colonnello lo fissò con sguardo difficile da interpretare.

«Mi sto convincendo in fretta che ho fatto bene a convocarla per questa missione».

Salomov continuava a fumare con lunghe boccate spostando continuamente lo sguardo dai ritratti sulle pareti a Dzjukov.

«Mi ascolti bene senza far domande» disse il colonnello.

«Dall’inizio del 1932 si registra un alto numero di morti nei distretti  ucraini in particolare in quelli di Kiev e, più a est, zona Kharkiv. Si parla di ritrovamenti di numerosi cadaveri di contadini, dai più poveri ai più benestanti, quasi tutti nelle zone della cosiddetta “terra nera”. La terra sembra essere morta, il bestiame sparito. Abbiamo inviato decine di ispettori, ma non riusciamo più a ricavare niente da queste fattorie, come se nessuno coltivasse più nulla. I compagni del Politburo e del Soviet Supremo sono molto preoccupati».

Raccolse dei fogli dalla scrivania e li passò a Salomov.

«Queste sono due lettere inviate al compagno Dzugasvili, a Stalin, capisce? A lui personalmente».

Si portò alla bocca una sigaretta con gesto plateale e si sporse un po’ in avanti, come se si aspettasse che il giovane maggiore gliela accendesse. Poi, visto che Salomov si era immerso nella lettura, fece da sé, piuttosto stizzito. Il colonnello non riusciva a capire con chi aveva a che fare: un impudente, un presuntuoso? Un abile giocoliere attento a misurare ogni minimo gesto? Del resto, nell’OGPU questa capacità di calcolo poteva salvare la vita.

Scorse la prima delle due lettere.

Onorevole compagno Stalin, c’è una legge del governo sovietico che dice che gli abitanti delle campagne devono soffrire la fame? Perché noi, lavoratori di una fattoria collettiva non abbiamo una fetta di pane nella nostra azienda dal primo gennaio? Come possiamo mai costruire un’economia popolare socialista quando siamo condannati a morire di fame, visto che al raccolto mancano ancora quattro mesi? Per cosa siamo morti sui campi di battaglia? Per soffrire la fame, per vedere i nostri figli morire? 

Salomov pensò che l’autore fosse molto coraggioso, o disperato per esprimersi in quella maniera. La seconda era ancora più schietta.

Ogni giorno nei villaggi muoiono per la carestia da dieci a venti famiglie, i bambini scappano di casa e le stazioni ferroviarie traboccano di contadini in fuga. In campagna non ci sono più cavalli né bestiame… La borghesia ha prodotto qui una vera e propria carestia, parte del piano capitalista per mettere l’intera classe contadina contro il governo sovietico».

«Comincia a rendersi conto di cosa c’è in gioco?» gli chiese il colonnello sottovoce.

«Sì. La dirigenza del compagno Stalin».

«Ha centrato la questione. Centinaia di lettere di questo tipo, di cui lei non ha mai e, ripeto, mai sentito parlare, arrivano al Cremlino».

Salomov navigava prossimo alla costa. Capiva quanto fosse opportuno andarci piano con uno sconosciuto, per giunta da adesso suo diretto superiore. Certi pensieri che a volte uscivano da chissà quale spelonca della sua mente iperattiva era molto meglio ricacciarli da dove nascevano. Del resto, mostrare una faccia pubblica e una privata era una ricetta indispensabile per aver cura di sé in quegli anni che si avviavano a indurirsi sempre più.

«Ci sono insistenti voci dalla campagna ucraina, secondo cui il Cremlino, il comitato centrale e Stalin per primo, avrebbero provocato quella che ormai si chiama apertamente “carestia”. Capisce, compagno Salomov? Si accusano i massimi dirigenti del proletariato sovietico e mondiale di avere organizzato apposta una politica di economia agraria che sta provocando…».

Si morse le labbra, quasi spaventato.

«Mi scusi, volevo dire che starebbe provocando morti su morti».

«Di che cifre si parla?».

La domanda prese Dzjukov stranamente alla sprovvista. Avrebbe dovuto aspettarsi un riferimento statistico da parte di un giovane sveglio.

«Diciamo che non voglio discutere con lei di queste cose» disse infine Dzjukov. «Forse nemmeno dovrei parlarne. Capirà bene che siamo nell’ambito di un segreto di Stato».

«Sono d’accordo».

Dzjukov accennò un sorriso. Si si alzò per versarsi un mezzo bicchiere di vodka, lo inghiottì in un sorso e si accese l’ennesima sigaretta.

Dopo un lungo sospiro di stanchezza si risedette.

«Capita in una società socialista ancora giovane come la nostra che da un problema e dalla sua risoluzione dipendano il futuro del modello di vita socialista. Credo che quella che possiamo chiamare la “questione ucraina”, meglio ancora “contadina”, rappresenti un esempio di quel genere di problema».

Dzjukov lo seguiva con visibile interesse.

«Perché si è corretto parlando prima di Ucraina, poi di classe contadina? ».

«Anzitutto non siamo ancora passati dalla società comunista a quella socialista. Grazie al compagno Stalin, però, ci stiamo arrivando. L’Ucraina mi sembra un laboratorio del futuro: dalla nostra capacità di mettere sul giusto binario la questione collettivizzazione dipende la realizzazione del progetto nato nel 1917. Che sia Ucraina o Siberia cambia poco. Centrale mi sembra invece che tipo di classe contadina dobbiamo fronteggiare».

«Il problema lo ha capito bene: è l’attacco al socialismo».

Il cinquantenne guardava il trentenne con moderata approvazione.

In un’epoca in cui era salutare tenersi lontani tanto da veloci antipatie quanto da immediate simpatie.

Abbassò la voce. «Comunque, che tutto avvenga in Ucraina non è affatto un caso. Ha presente quel termine che laggiù si usa sempre più spesso, holodomor?».

Fece una piccola pausa.

«Lei parla un po’ di ucraino?».

«No, compagno colonnello».

«È l’unione di fame e uccidere di stenti, ovvero holod e moryty. Significa “infliggere la morte tramite la fame”. Questo è un attacco diretto al Cremlino, non crede?».

«Se mi consente» disse Salomov, «la questione è ancora più grave.

Si rischia di diffondere notizie false. Ovvero, il sistema più rapido per minare un progetto politico. Credo che alla base ci sia un vero e proprio piano di distruzione del percorso socialista».

Tacque un momento per osservare la reazione del superiore alle sue parole. Il colonnello pendeva dalle sue labbra.

«Quindi» riprese, «c’è molto da fare. Rischiamo che tali notizie false si diffondano all’estero. E lì, converrà con me, compagno Dzjukov, che i nostri nemici non sono certo pochi».

Il superiore sorrise.

«Sa cosa le dico, compagno maggiore? La sua analisi piacerebbe molto al compagno Iosif Stalin, mi creda. L’ho conosciuto abbastanza bene quando eravamo insieme in Crimea».

«La ringrazio».

«Allora, vediamo di definire la sua posizione» disse Dzjukov con tono sbrigativo. «Da questa mattina lei viene ufficialmente incaricato di questa missione. Si recherà in Ucraina domani stesso in treno. Per i biglietti e tutto il resto provvederà la mia segretaria. Una volta giunto là dovrà indagare con “circospezione e discrezione”».

Sottolineò le due parole con molta enfasi.

«Mi permetta di ripeterlo fino all’esasperazione. Tutto il processo investigativo dovrà essere circondato dal più assoluto silenzio. Dovrà riferire tutto a me e a me soltanto. Inoltre…».

Si guardò attorno quasi avesse paura di essere spiato.

«Dovrà investigare sulla sparizione del compagno tenente Bogdan Andreievic Kozlov. Era stato trasferito due mesi fa in un paesino ucraino, Wasylyka. Non ne abbiamo più notizie. Corre voce che sia stato assassinato».

Tossì un paio di volte.

«Se fosse vero, capirà bene che l’assassino non può restare impunito, chiunque sia. Mi raccomando il massimo riserbo. Il compagno Stalin non sa nulla; preferiamo informarlo a indagine conclusa e una volta che i responsabili siano stati condannati in modo esemplare, nello sciagurato caso in cui le voci siano vere. Sul posto lei avrà il pieno appoggio della nostra intera rete, sempre con la massima discrezione».

«Che autonomia di movimento avrò?».

«Godrà di piena discrezionalità, ma solo e sempre dopo avermi avvertito, mai prima. È chiaro?».

«Chiarissimo».

«Comunicheremo attraverso una linea telefonica e una telegrafica secretate. Ha domande?».

«Quindi, dovrò occuparmi di fare giustizia. Però…».

Qualcosa non tornava nella faccenda.

«Parli liberamente, maggiore».

«Se la popolazione ucraina è così esasperata non credo che il tenente Kozlov sia il primo dei nostri ufficiali a non dare più notizie di sé. Sbaglio?».

«Non sbaglia affatto. Prosegua».

Il colonnello lo squadrava con attenzione.

«Allora, mi chiedo come mai questa attenzione proprio per il tenente Bogdan Andreievic Kozlov? Come mai lei e il comando OGPU di Mosca inviate un ufficiale superiore? E se non fosse stato assassinato ma fosse fuggito, poniamo, a New York al seguito di una ballerina per la quale ha perso la testa?».

«Maggiore Salomov, la prego».

Lo sguardo severo di Dzjukov fulminò per un istante il sottoposto. Gli rispose facendosi il segno della croce sulle labbra.

«Va bene, compagno maggiore, lei è sveglio come mi avevano spiegato i miei collaboratori. Posso dirle solo questo: il tenente Kozlov sta a cuore a qualcuno in palazzi molto elevati. Diciamo il più elevato di tutti».

«Mi farò bastare questa spiegazione, stia tranquillo, compagno colonnello » sorrise Salomov rassicurante.

«Bravo. La saluto, compagno maggiore, e non mi deluda. Prima di me, non deluda il compagno Stalin. Senza retorica alcuna, mi creda: oggi e nelle prossime settimane il futuro del socialismo dipenderà anche da lei».

Si strinsero vigorosamente la mano; il colonnello aggiunse una pacca sulla robusta spalla del maggiore.

Nell’atrio lo aspettava la segretaria che gli apparve come un pacato tricheco privo dell’espressione arcigna d’inizio mattinata. Gli spiegò i dettagli pratici, contabili, amministrativi e tutto quanto gli sarebbe stato necessario per lo svolgimento della missione, la cui durata era indefinita. Probabilmente dipendeva dalla conclusione e dall’esito.

Scendendo le scalinate solenni della famigerata Lubjanka il maggiore aveva una quantità di domande in testa. Da capogiro. Davvero i colleghi OGPU lo avrebbero sostenuto fino a quella remota regione dell’impero sovietico? Come riuscire a riconoscere coloro con cui poteva parlare della sparizione del collega Kozlov da quelli che ne dovevano restare all’oscuro? Sarebbe stato necessario utilizzare i metodi di tortura che aveva sempre aborrito? E ancora, come sarebbe stato accolto in Ucraina, da sempre ostile verso il bolscevismo?

A quanto pareva il governo di Mosca non si fidava degli organi della polizia ucraina; ma lasciava che collaborassero con i comandi OGPU. 

Come sarebbero stati i rapporti coi colleghi ucraini? E, soprattutto, se avesse fallito, che fine gli avrebbero riservato?

L’ultima, era la domanda centrale; e non poteva essere diversamente. 

Anche se Salomov non temeva di fare la fine dei tanti, eliminati proprio dalla polizia segreta in cui si era arruolato da quindici anni.

Non ricordava più nemmeno il perché di tale scelta. Fino a che punto era un carrierista, un cinico, un opportunista. Non gli riusciva di mettere in collegamento quelle parole; come cercasse inutilmente di comporre una collana di pietre troppo diverse fra loro.

E se l’Ucraina fosse l’occasione per guardarsi dentro e avere una risposta a quelle domande? Non avendo ancora le idee chiare su cosa avrebbe dovuto realmente fare in quelle remote campagne aveva però l’impressione di qualcosa di decisivo ormai imminente. Un incontro con un mondo che lo avrebbe finalmente illuminato.

In ogni caso, aveva fatto bene a rimanere sul vago con Dzjukov su quanto accadeva in Ucraina. A Mosca giravano da mesi dicerie, cifre, racconti da raccapriccio metropolitano. Salomov aveva ascoltato notizie da far crollare l’ultima traccia di buona coscienza socialista e fraternità internazionalista.

Il padrone della Russia, Stalin, nell’aprile 1932 aveva ricevuto materiale esplosivo su tanti quadri di partito che nella regione-granaio, come veniva chiamata l’Ucraina, restituivano la tessera, si lasciavano andare a potenti critiche verso il Cremlino, ingiuriavano i «compagni di Mosca che non sanno nulla di ciò che viviamo qui».

Il dittatore, come un bimbo maligno e onnipotente che si sente offeso dai compagni di gioco e non si fida più, bloccò ogni invio di grano, miglio, cereali. In vacanza a Soci, sul Mar Nero, Iosif Vissarionovic Dzugasvili tenne corrispondenza con uno dei suoi seguaci più fidati, Lazar Moiseevic Kaganovic; e qualcuno che aveva avuto accesso al carteggio ne aveva diffuso il contenuto. A giudizio di Stalin lo Stato era minacciato proprio da quella massa di sottoproletari mai redenti nel socialismo sovietico, ostinati egoisti nel rifiutare la collettivizzazione.

Strutture come i sovchoz, i kolchoz e le varie cooperative dal 1917 avevano via via preso il posto delle proprietà dei latifondisti aristocratici.

Erano le strutture di gestione dell’immensa agricoltura russa. Dunque, appartenevano proprio allo Stato sovietico che doveva fare i conti con le orde antisocialiste. Da quel momento i furti per sfamare la propria famiglia venivano ripagati con il gulag o la morte per fucilazione sul posto.

Le cifre si adeguarono immediatamente: entro sei mesi dall’ordinanza moscovita, alla fine del 1932, si ebbero 4.500 esecuzioni capitali e centomila invii nei campi di lavoro con pene decennali.

Ventuno membri del PCUS furono arrestati, condannati come controrivoluzionari e fucilati.

Salomov aveva ascoltato questi sussurri senza farsi un’opinione in merito. Era verità? Contropropaganda? In ogni caso, meglio tenere i dubbi per sé. Adesso andava a toccare con mano la questione.

Per alleggerire il peso di quei dubbi il maggiore Michail Salomov percorse a piedi i quindici chilometri fino all’appartamento dov’era alloggiato.

Temporaneo come la missione imminente, la sua carriera, la sfilza disordinata d’incarichi, gli amorazzi che capitavano. Si era convinto che esistesse una segreta coerenza in quella sua costante assenza di stabilità, abitudini, certezze. Era anzitutto la vita stessa a essere temporanea. E su questo nemmeno l’onnipotente compagno Stalin poteva farci niente.

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