La sigla indicava il Gosudarstvennoe politiceskoe upravlenie (Direttorato politico dello Stato), ovvero la polizia segreta del regime sovietico fino al 1934. Si può identificare grossomodo lo stesso potentissimo organismo passando dalla Ochrana ai tempi dello Czar – dunque fino al ‘17 – passando per la Ceka fino al ’22, poi alla OGPU dirette entrambe da Felix Dzerzinskij; quindi alla OGPU diretta nel ‘26/34 da Vjaceslav Menzinskij; il nome cambia poi in NKVD (Direzione generale per la sicurezza dello Stato).
Ogni dittatura che si rispetti, per di più se ha aspirazioni totalitarie, possiede la propria arma segreta in un esercito di spie, assassini, torturatori, qualche abile psicopatico e tanti ligi burocrati. L’Unione Sovietica già nei primi anni Trenta si stava avviando verso il totalitarismo ma da almeno un quindicennio era perfettamente attrezzata sul piano della polizia politica e segreta. Corredata da prigioni, centrali cittadine, sedi periferiche, campi di prigionia, tribunali.
Ma il risultato più duraturo nel tempo, l’arma più potente nelle mani di quel regime che si dichiarava appassionatamente “comunista” assumeva i tratti di un misto fra terrore, paura, diffidenza, riservatezza, autocensura, cautela maniacale.
La stazione era presidiata per l’arrivo di qualche pezzo grosso del partito. Ovunque, come tanti tappeti rossi di accoglienza, plotoni di polizia e squadre di OGPU in divisa. Oltre a un’indefinibile quantità di sbirri in borghese sparsi quà e là. La stazione era presidiata per l’arrivo di qualche pezzo grosso del partito. Ovunque, come tanti tappeti rossi di accoglienza, plotoni di polizia e squadre di OGPU in divisa. Oltre a un’indefinibile quantità di sbirri in borghese sparsi quà e là. L’atmosfera era poco respirabile per un cittadino qualsiasi; non certo per Salomov che guardava a simili rappresentazioni di forza apparente con il suo vago sorriso intriso di consapevolezza. Il maggiore leggeva un tale dispiegamento di manichini armati fino ai denti come suprema confessione di debolezza. Come pensare che agenti esteri sarebbero riusciti a penetrare in URSS superando i controlli ferrei alle dogane? arrivare fino alla capitale? installarsi in un hôtel né sfarzoso (fra i pochissimi riservati esclusivamente a personalità straniere e sovietiche), né una stamberga in cui si sarebbero immediatamente fatti notare? Quindi, andare in stazione con i sette posti di blocco che perfino a Salomov aveva fatto perdere tempo per oltrepassarli?
Eppure ecco lì non meno di tre o quattrocento fra soldati e agenti e ufficiali e un paio di generali, fra Armata Rossa, OGPU e pulizia municipale. Decisamente colui che abitava il Cremlino doveva soffrire di seri disturbi psichici, sconfinanti nella paranoia, nella schizofrenia, nella doppia personalità (la pubblica e la privata), con un sostanzioso contorno di manie di persecuzione con visioni di complotti a rendere orridi i sogni notturni e spesso anche quelli a occhi aperti.
Salomov si complimentava con se stesso per la capacità di dissimulare che in lui era del tutto innata. Fin da bambino riusciva a nascondere ciò che pensava e sentiva; in particolare con chi gli stava più vicino. Quando gli morì la nonna cui era affezzionatissimo, a soli nove anni fece finta di nulla, continuando a ridere e scherzare e giocare e azzuffarsi con i bambini delle fattorie vicine e fare il mariuolo a scuola beccandosi severe punizioni dal solito maestro odioso.
I genitori non avevano certo il tempo di preoccuparsi visto il lavoro enorme per riuscire a sopravvivere in tempi assai duri. Le conseguenze della fallita rivoluzione del 1905 si facevano sentire nell’arroganza dell’Ochrana e nella diffidenza delle autorità del governo centrale. Lo czar Nicola II sembrava come offeso da quel popolo di schiavi che aveva sempre creduto a sua completa disposizione.
Il piccolo Michail doveva tornare da scuola subito per lavorare nei campi o nei magazzini di stoccaggio dei prodotti. Proseguì a subire anche quella corvée senza fare una piega; proprio nel locale in cui la nonna si era data da fare mano fino al giorno in cui aveva improvvisamente piegato la testa come presa da un sonno incontrollabile. E non si era più mossa, passando dalla sistemazione del frumento nei sacchi alla bara di legno di quercia. Michail si era fermato per primo avendo notato qualcosa di strano nel corpaccione di quella matrona ultrasettantenne che da una vita non risparmiava le forze. Come se l’ultimo mezzo secolo non fosse nemmeno esistito e lei fosse una mamma in attesa di quella che sarebbe poi stata la mamma di Michail.
Il ragazzino diede l’allarme facendo accorrere le decine di persone che occupavano l’enorme magazzino e alcuni fuori. Agafja Kusnetzova si era congedata dalla vita durissima di campagna nella Russia dell’anno 1909, sotto il regno del “Piccolo Padre” Czar Nicola II Romanov.
E il nipote prediletto nemmeno una lacrima, né un lamento. Puro automa nel riprodurre movimenti e azioni e doveri quotidiani. Solo nel cuore della notte, controllando che tutti dormissero, usciva dalla casa colonica, s’inoltrava nei campi di grano illuminati dalla morbida luna estiva. Solo allora si concedeva un pianto senza requie per minuti e minuti, il corpo scosso da tempeste di sangue bollente e rabbia e disperazione. Il nome dello Czar veniva ricoperto di tutti gli insulti che il piccolo conosceva, imparati diligentemente dai più scatenati fra compagni di scuola e figli di lavoranti del paese.
E sua maestà imperiale si trovava inconsapevolmente sommerso da chili di escrementi di vacca, maiale, capra, cavallo e tutti gli animali che vivevano in quella proprietà del barone Kirill. Uno sfaccendato nobilastro che si faceva vedere ogni morte di papa distribuendo cioccolata e pane dolce ai ragazzini che gli si affollavano attorno.
Michail si calmava solo dopo una mezz’ora e più con la stanchezza fisica nelle ossa, gli occhi che bruciavano per le lacrime, la bocca che non tollerava più il saporaccio salmastro di quella strana acqua che fuoriusciva dalle palpebre, la testa che sembrava scoppiare in un’emicrania universale.
Quindi, rientrava silenziosamente nel suo letto, attento a non calpestare nessuno fra i sei fratelli e sorelle, a dormire tutti insieme in uno stanzone al primo piano. Era diventato un artista nel far scricchiolare il meno possibile il legno semi marcio degli scalini.
A furia di nascondere i veri sentimenti i genitori, i fratelli, le sorelle, le zie, tutti coloro che gli giravano intorno come pianeti più o meno remoti si abituarono velocemente quasi a non considerarlo. Non era raro che cominciassero a mangiare accorgendosi poi della sua assenza, senza essersi disturbati a chiamarlo almeno una volta ad alta voce. E lui, naturalmente, faceva come se nulla fosse successo; capitava anche che si mettesse a ridere come un piccolo demente, attirandosi un paio di sonori ceffoni del padre. Mentre la madre prediligeva i calci nel sedere; pratica strana, assai più consona a un uomo. Come molti notavano la prima volta che capitava di assistere a una tale somministrazione a quello strano bambino.
Quando nel 1916 volle lui stesso tentare l’esame di ammissione all’Accademia militare “Pavlovsk” di Pietroburgo, nel frattempo divenuta Pietrogrado, fu proprio quel carattere apparentemente impermeabile ad avvenimenti, dolori, tragedie familiari, collettive ad aiutarlo a raggiungere la media minima per entrare. Anzi, a superarla piazzandosi addirittura sesto su cinquemilacinquecento candidati. I genitori non credettero ai loro occhi stanchi da decenni di lavoro nei campi quando lessero il risultato sul telegramma inviato dal loro stesso figlio; che non si disturbò nemmeno a rientrare a casa per fare i bagagli e trasferirsi nella capitale imperiale. Non aveva alcun piacere, infatti, a salutare nessuno della famiglia; quanto a vestiti e altre necessità la gran parte era fornita dall’accademia stessa. Il resto lo acquistò a poco fra negozietti e mercatini del sabato, riuscendo a risparmiare comprando roba più che decente.
Mettendo piede a sedici anni nella prestigiosa accademia dal nome dello czar Paolo I (1797-1801) Michail usciva di casa, dall’adolescenza, da quel che fino al giorno prima degli esami era stato il suo mondo. Ed entrava presumibilmente in quello adulto con qualche anno di anticipo; giusto il tempo di gustare tre semestri di tremenda disciplina del tutto militare, e anche oltre. Una volta il comandante, generale di brigata Voroscilov (cugino del maresciallo sovietico, uno dei bracci destri di Stalin), ricordò come ogni allievo cadetto avesse ancor meno diritti di un detenuto politico della fortezza di Pietro e Paolo – com’era stato per diversi anni Michail Bakunin.
Nell’ottobre del ’17 (novembre per il calendario russo di allora) allo scoppio della seconda rivoluzione (o colpo di Stato, che dir si voglia) l’Accademia venne chiusa dalle autorità del nuovo governo sovietico. Ma il quasi sottotenente Salomov fu lesto a capire come stavano le cose e a trovarsi un nuovo padrone da servire; questa volta probabilmente per una vita intera.