Il giovanotto aitante e seducente nella lucida divisa, spesso sfiorato da sguardi angosciati o perplessi di moscoviti, andava di buon passo per la sua strada. Pensava già a organizzare i bagagli e avvertire i pochi amici che si era fatto in una città troppo grande e anonima per i suoi gusti da ostinato contadino. A chi lo scambiava per un normale arrampicatore sociale lui stesso, se lo riteneva il caso, rettificava con un sorrisetto ammaliatore sostenendo di essere un appartenente alla classe contadina che voleva onorare tale origine facendosi valere nel lavoro socialista. Quanto al socialismo, in realtà scavando nelle grigie oscurità del suo pensiero si sarebbe agevolmente scoperto non vi esservi alcuno spazio per l’ideologia, qualunque essa fosse. Non ne aveva l’interesse, non ne sentiva il bisogno: gli bastava mostrarsi in divisa o, se in borghese, comunicare al prossimo il lavoro che svolgeva e il suo posto ormai da quadro. Con ottime prospettiva nella dirigenza: lo sbocco verso i gradi di colonnello e poi di generale, come già ricordato.
La lontananza, a dir poco remota, dall’esaltazione cieca degli stalinisti – come prima dei leninisti e ancor prima degli czaristi – gli consentiva di assumere un distacco che, ovviamente, cercava di non rendere proprio evidente. Ma dal profilo, per esempio, della disumanità lo spingeva piuttosto a non mettersi mai in evidenza per crudeltà verso le vittime degli ingranaggi del sistema stalinista.
Nel caso di due interrogatori cui gli era stato ordinato di partecipare, ancora con i gradi di sottotenente, a metà anni Venti, si era al contrario distinto per trattare i due sospettati con particolare professionalità dalla quale era assente ogni traccia di astio, odio, violenza. Nel caso del secondo interrogatorio il capitano lo aveva rimproverato più volte; ma Salomov aveva continuato imperterrito a far domande ispirate alla professionalità, né particolarmente umana, né particolarmente disumana. Il capitano si arrabbiò a tal punto da far rapporto al suo sottoposto che a un certo punto aveva bloccato il braccio di un agente pronto a picchiare il prigioniero. Erano seguiti alcuni giorni di sospensione dal servizio e perfino uno stringente interrogatorio in cui era toccato a lui di essere vittima. Per sua fortuna a quel tempo intratteneva una relazione con la figlia di un alto dirigente del partito: Salomov era intenzionato semplicemente a divertirsi, mentre lei era follemente presa dal bel tenentino. In ogni caso la benedizione dall’alto piovve al momento giusto e silenziosamente il capitano che aveva osato aprire un’inchiesta interna a carico di Salomov era stato altrettanto silenziosamente trasferito negli Urali. Quanto al giovane oggetto d’amore della figlia del responsabile del partito di Tbilisi dopo appena due mesi venne addirittura promosso a primo tenente. Il che non gli impedì alla fine dell’anno di mollare la ragazza: ufficialmente per incompatibilità di carattere e per il trasferimento a Kiev – chiesto, peraltro, dallo stesso Salomov, all’insaputa della famiglia di lei.
Era l’esempio tipico del carattere opportunista, indolente, poco caloroso di quel giovane ufficiale di carriera. Un umano che a detta di qualcuno rappresentava un autentico mistero psicologico.
Arrivato alla sua abitazione venne salutato con un sorriso illimitato dalla portinaia, la cinquantenne Olga Valenskaja, che fungeva anche da capo blocco – come spesso capitava in quegli anni. Autentica virago cui non sfuggiva nulla nell’attività di sorveglianza e ordine nel palazzo si trasformava in dolce signora dagli occhioni sbattuti ad arte al semplice passaggio del giovane maggiore dell’OGPU nella sua elegante divisa.
Donnone oltre il metro e ottanta, a occhio intorno al quintale e mezzo di peso, macchie rossicce sul volto – tipiche di chi indulge in colloqui amichevolissimi con la vodka – lo bloccò con la mano grassoccia sul bavero del cappotto d’ordinanza.
<<Caro compagno maggiore, le volevo render conto del chiasso continuo dell’interno 13 B, sa … quel presunto professor Rosdesventsky. E penso anche che legga stampa clandestina czarista>>.
<<Cara compagna capo blocco, a parte il fatto che non è certo a me che deve riferire tali informazioni, le faccio presente che il suddetto è realmente professore in un ottimo liceo moscovita. Il chiasso, poi, lo fanno i suoi due figli, maggiorenni, costretti ad abitare ancora con i genitori per la notoria penuria di alloggi della nostra splendida capitale>>.
Che un ufficiale superiore dell’OGPU si esprimesse in questo modo sulla crisi degli alloggi moscoviti avrebbe lasciato perlmeno perplesso un qualsiasi altro cittadino; ancor più se iscritto al PCUS. Magari spingendolo a far rapporto al più vicino posto di polizia urbana. Ma non certo l’arpia innamorata del bel maggiore; per di più ottusa già di suo, impedita quindi dal riflettere sulla dichiarazione alquanto azzardata relativa alla reale mancanza di alloggi. Ove l’aspetto controrivoluzionario consisteva proprio nel far notare tale realtà. In un Paese ove la verità da troppo tempo non era più rivoluzionaria solo un uomo dotato di quella certa incoscienza tipica di Salomov poteva uscirsene con discorsi simili.
<<Quanto poi alla stampa czarista, ma dove diavolo vuole che si possa ancora trovarla di questi tempi? E adesso mi scuserà ma devo fare i bagagli>>
Il donnone lo guardò delusa, prontamente domandando con voce intristita:
<<Oh, partite quando? E starete via molto?>>.
Sulla destinazione, almeno su quella, la compagna capo blocco ebbe il minimo di accortezza di zittirsi. Sapendo che il maggiore non le avrebbe risposto; nemmeno se fosse stata un luminoso incrocio fra Marlene Dietrich e Greta Garbo.
<<Parto domani. Quanto al rientro sarà almeno questione di diverse settimane. Stia bene e sorvegli i miei poveri averi, cara compagna>>.
E per esclusivo amore del quieto vivere, con un pizzico dell’usuale tendenza seduttiva, esercitata pressocchè su qualsiasi esemplare di razza femminea fra i 6 e gli 86 anni, le baciò la mano rovinata da gelo e candeggina.
La matrioska umana diventò ancora più rossa dell’ordinario bisbigliando un
<<grazie compagno>>
con voce tremolante e sguardo estasiato.
Saliti i gradini fino al proprio piano, il quinto, con ritmo da ragazzino il 33enne si compiaque con sé stesso per il fiato in ottime condizioni e il cuore giusto un po’ veloce. Le condizioni fisiche erano una realtà per lui primaria e di cui andava terribilmente fiero.
Gli era capitato che “uno scaldino” osasse osservare qualcosa sulla sua <<pancetta>>. In effetti non ne aveva mai avuto, se non una vaga ombra di grasso quando gli capitava in vacanza di bere troppa birra. Eppure, la ragazza che gli era capitata a tiro per fargli compagnia una mezza nottata (Salomov le riuniva in unica categoria chiamandole “gli scaldini”) per tutta risposta alla sua irrispettosa battuta era stata da lui scaraventata fuori dal talamo casuale, i vestiti gettati dalla finestra, uno sputo sul viso come massimo disprezzo.
Certo, a differenza di tanti colleghi il bell’ufficiale dagli occhi capaci di scrutare nei peggiori anfratti del prossimo, non aveva mai picchiato nessuna donna, ragazzina, anziana. L’arroganza disumana da militari e da poliziotti che sovente distorceva il carattere di un graduato o ufficiale OGPU non apparteneva affatto alla genetica di Salomov. Nel contempo era perfettamente capace di colpire forse ancor più nel profondo una donna che osava prenderlo in giro o sminuirlo sul piano fisico o intellettuale.
Ciò che più lasciava perplessi o spaventati coloro che assistevano a tali scene – visto che lui non faceva alcuna differenza fra privato e pubblico riguardo a eventuali umiliazioni da rifilare a chi le meritava – era l’assoluta imperturbabilità con cui diceva certe cose o lanciava uno sputo o distruggeva una persona con un paio di osservazioni assai calibrate. Mai una volta che diventasse rosso d’imbarazzo o di rabbia, gli capitasse di confessare a un amico di avere esagerato; magari un po’. Regolata a modo suo la questione per lui era tutto risolto.
Gli succedeva di reincontrare la ragazza o la donna dopo qualche giorno o settimana: in quel caso si comportava come se nulla fosse successo. Parlottando del più e del meno con il solito fare charmant lasciava spesso l’interlocutrice trasecolata per il cambiamento di atteggiamento.
Si mise velocemente e con la solita maniacale precisione a fare i bagagli; era un’attività per lui del tutto abituale da anni e anni considerando le missioni di alcuni giorni e le destinazioni di mesi in terre anche molto lontane. In qualsiasi posto si trovasse la provvisorietà era regola; mentre una valigia con biancheria pulita, sigarette, un paio di buoni libri, una divisa di ricambio e a volte un vestito da borghese era sempre pronta all’uso anche immediato e della massima urgenza.
Immaginando di doversi assentare per intere settimana preparò due valige e una borsa per i libri. Avrebbe volentieri aumentato fino a quattro o cinque colli ma non voleva assolutamente dare nell’occhio; anche considerando che avrebbe viaggiato in divisa trattandosi di viaggio di servizio. E un OGPU, per di più ufficiale superiore, cercava sempre di non colpire in alcun modo la curiosità di nessuno fra passanti e viaggiatori. La categoria dei curiosi e sfaccendati nella Russia staliniana era stata bandita da tempo.
Terminata l’incombenza valigie si prese il tempo di scegliere per bene i libri da portarsi dietro.
Nel reparto saggi scelse il secondo volume de Il capitale: il primo lo aveva studiato all’università di Mosca anni addietro, trovandolo abbastanza abbordabile (non si era laureato in economia bensì in filosofia). Ed ecco che finalmente trovava il tempo di abbordare il secondo.
Poi infilò le Lezioni di filosofia della storia di Hegel: il padre dell’idealismo costituiva una sua vecchia passione del liceo. Quel lungo testo risalente agli anni venti dell’Ottocento era da tempo che desiderava conoscerlo.
S’immaginava un’ipotetica perquisizione dei bagagli e le facce di poliziotti e guardie di frontiera fra una repubblica e l’altra dell’URSS a cercare di capire che diavolo di letture facesse un maggiore della temutissima OGPU. Ma visto che si trattava proprio di un ufficiale della suddetta l’ipotesi di un paio di altri “sbirri” intenti a frugare nei suoi bagagli rappresentava un fulminante raccontino di fantascienza degna di H. G. Wells o Jules Verne, autori da lui molto amati.
Infatti, se si andava a spulciare qualche titolo del reparto romanzi si trovava facilmente proprio autori simili: a cominciare da Conan Doyle, il cui Sherlock Holmes mandava Salomov in assoluta polluzione mentale.
Per quel viaggio ucraino vennero scelti ben cinque volumi della Comédie humaine di Balzac. Quindi, la biografia di Cechov scritta da un accademico di cui il maggiore aveva seguito le lezioni in contemporanea alla facoltà di Lettere. E poi un capolavoro che per caso non gli era mai capitato di poter godere come Le avventure di Robinson Crusoe di Defoe. Gli inglesi erano alquanto malvisti dai piani alti del partito, malgrado fossero stati difesi dal mitico Commissario del popolo per l’istruzione Anatolij Vasil’evic Lunacarskij, morto proprio in quel 1933.
Una volta terminato di fare le valigie si sentì inspiegabilmente stanco. Preparatosi un samovar e accesa una sigaretta turca – ancora un pacchetto di quelli miracolosamente trovati in Crimea durante un viaggio di lavoro dell’anno precedente – guardò l’orologio della cucina. Mancavano ancora tre ore abbondanti alla partenza. Si prese allora un’oretta di riposo, sdraiandosi con piacevole indolenza sul letto che in soggiorno fungeva anche da divano occasionale. Non mancò, comunque, di puntare la sveglia un’ora dopo, temendo magari di farsi prendere da un sonno di pietra.
Infatti dormì intensamente. E quando si risvegliò al suono sgradevole della vecchia sveglia ereditata dai genitori si sentì decisamente meglio.
Scese le scale più velocemente del solito, trovandosi in condizioni simili a quelle di un ragazzino in partenza per le sudate vacanze estive.
La portinaia doveva essere al mercato a far spese; la sua assenza lo tolse dall’imbarazzo dei suoi saluti e sguardi dolciastri.
Il tram arrivò in perfetto orario, mezzo vuoto e piacevolmente oscillante fra i binari cittadini.
Lungo la strada si mise a osservare con attenzione per lui inusuale la gente che riempiva i marciapiedi. Il freddo si faceva ancora sentire; seppur offrendo una tregua che non si capiva se fosse un anticipo sicuro di primavera o una perfido presa in giro della millenaria climatologia russa. La vecchia volpe che ama divertirsi con i topolini che si affrettavano nelle varie faccende quotidiane.
Donne avvolte in scialle ridotti spesso a esili e squallidi paraventi, del tutto inabili a riparare dalle folate di vento sotto i dieci gradi; uomini frettolosi che si affaccendavano a comprare o a vendere qualcosa, spesso di misero o del tutto superfluo, o a precipitarsi in banche, assicurazioni, uffici della Federazione o della Municipalità moscovita.
Ufficiali dell’Armata Rossa deambulavano a gruppetti di tre o quattro, a volte chiacchierando, altre muti, avvolti nella propria individualità illusoria in quella schiacciante ossessiva collettività di centoventimilioni di compagni e compagne.
Passò davanti a un negozio di alimentari povero di merce, prezzi calmierati dall’apposita autorità di partito, una lunga fila fatta di cittadini ordinatamente avvolti dalla quotidiana rassegnazione impastata con la paura di far qualcosa di sbagliato. Due sentimenti fusi insieme come la calce e il cemento e la Polizia di Stato a fare da acqua, onnipotente unificatrice.
Riconobbe il suo professore di letteratura russa al liceo di Petrovsk. Anche lui si era trasferito nella capitale per gli ultimi dieci anni di carriera finendo nella scuola superiore più prestigiosa nel raggio di centinaia di chilometri. Non era la prima volta che si reincontravano; ma quella mattina Salomov fu preso da un polipo di nostalgia che gli frugava nella mente con tentacoli vellutati e sguardo malinconico.
Il professore lo riconobbe subito e si staccò dalla file per salutarlo affettuosamente come le altre volte. Al cenno dell’ex studente che così avrebbe perso il posto fra gli altri affamati l’altro gli sorrise distendendo le rughe che gli popolavano la fronte grigiastra.
<<Dove vai di bello, Salomov?>>
<<Missione lontana. Ovviamente non posso dirle nulla>>
<<Ah, ma io nulla ti chiedo, non temere. Hai letto l’ultimo articolo di Vorjatin sulla Literaturnaja Gazeta sull’ultimo Cechov?>>.
Salomov fece cenno di si accompagnandosi con un gesto della mano che esprimeva inequivocabile disprezzo.
<<Un cretino patentato e onorato>>
<<Shhh…. professore caro, ma quando imparerà che qui il marciapiede ha orecchie, come le hanno i cani randagi, le donnine che fanno la spesa>>.
Il maggiore lo scosse affettuosamente per il bavero.
<<E poi cosa dovrei fare, venirla a liberare alla Lubjanka? E chi sono io, il compagno Kalinin o il compagno Voroscilov, o magari il mio capo supremo, compagno Menzinskij?>>
Il docente ultrasettantenne gli sorrise divertito. Quindi lo abbracciò raccomandandogli di stare attento e riguardarsi ovunque fosse diretto.
Salomov lo salutò ancora un paio di volte nell’allontanarsi, valigie in mano e zaino con i libri sulle spalle. Quell’uomo gli aveva insegnato l’amore per lo studio, lo aveva un po’ risvegliato dal torpore adolescenziale di chi era destinato a rendere anima e corpo all’esercito, era stato all’origine del suo unico amore. Adesso era definitivamente preso dalle spire della vecchiezza, ben più potente del polipo della malinconia di poco prima. Chissà in quale inverno futuro di ghiacci e tempeste, scarsezza di cibo e spietate novità dal Comitato Centrale l’antico professore avrebbe dovuto soccombere a tempi ormai di troppe spietate pretese.